Questi ultimi mesi stanno mostrando a ciascuno quanti aspetti abbiamo sottovalutato in questi ultimi decenni: è difficile esprimersi o anche solo dare spunti di riflessione su una realtà che muta quasi ogni giorno e che talvolta pare davvero inafferrabile nelle sue mille variabili.
Proviamo allora ad alzarci un poco e decodificare gli eventi (anche logistici) da un’angolatura più ampia possibile: una visione modello “drone”, per capirci.
Che siano saltati (quasi) tutti i paradigmi e che il mutamento sarà lungo e profondo è ormai avvertito da molti. Quello che deve maturare ora ruota, credo, intorno ad una parola: consapevolezza. Quella realtà che pare sfuggirci di mano ogni giorno, è la realtà che noi abbiamo costruito: dai rapporti sociali fino all’economia e alla supply chain che la alimenta.
Siamo noi i protagonisti e creatori di quello che oggi ci appare fragile e sfuggente: l’errore più grande è non prenderne piena consapevolezza. Poi c’è ne è uno forse ancora più grande; quello del pensare che prima o poi tutto tornerà come prima. Ma ci arriviamo tra un attimo.
Joseph Stiglitz – premio Nobel per l’economia nel 2001 – ha di recente dichiarato che “questa crisi per molti aspetti più profonda e con risvolti di gran lunga più intensi delle altre, ha molte cose da insegnarci: l’importanza della scienza, il ruolo strategico del settore pubblico e la necessità di azioni collettive”, aggiungendo che ci rendiamo ora conto “dei pericoli di una economia di mercato dalla vista corta, incapace di resilienza”.
Gli fa quasi eco Will Huttun – economista e giornalista inglese quando scrive che “Non siamo riusciti a costruire un’economia dalle radici solide”.
Essere dunque consapevoli che la fragilità è intrinseca a quello che abbiamo creato: anche nella supply chain, anche nella visione “lean” della produzione e della gestione dei magazzini. Non significa rinnegare o buttare tutto al macero: significa essere consapevoli che stiamo parlando di una “creatura” nata da noi e costituzionalmente fragile.
E siamo noi quelli che oggi sono chiamati a mutarla, ad adattarla perché diventi davvero più resiliente. Nessuno pensa ad una medicina se è convinto di essere sano e nessun giardiniere cambia vaso ad una pianta se è convinto che stia crescendo bene. Ma noi non stiamo crescendo bene, anzi non cresceremo affatto.
E la sensazione che proviamo tutti in questo tempo, mi pare ben sintetizzata da Paolo Rumiz quando scrive che “forse non siamo mai stati così al bivio tra crollo e rinascita, tra schiavitù e indipendenza, tra coraggioso salto evolutivo e involuzione definitiva”.
Consapevolezza, dunque: siamo noi gli artefici di questa realtà. E noi possiamo (dobbiamo?) intervenire per migliorarla.
Poi c’è la nuova normalità. Perché se per il primo errore (la creazione di questa realtà fragile) possiamo in parte autoassolverci trasformandolo in peccato veniale (non è poi colpa nostra, siamo tutti dentro al meccanismo…) per il secondo non ci sono scuse e resta mortale.
Parlo dell’idea di pensare che tutto possa tornare come prima: piano piano, lentamente, a piccoli passi e con sacrifici ma alla fine passerà anche questa e poi inevitabilmente si tornerà alla vecchia normalità: sicura e rassicurante.
Le società sono adattive e niente avviene per poi andarsene senza lasciare una traccia, una mutazione profonda nella realtà, sociale ed economica.
E la logistica non ne sarà immune.
Illuminante la considerazione di Stiglitz a tal proposito: “la cosa più importante è lo studio della storia. La storia non si ripete mai esattamente uguale, ma riflettere sulle vicende del passato suggerisce delle intenzioni sul presente”
Ecco allora il compito alto che ci aspetta: la consapevolezza che siamo noi i protagonisti per l’ideazione di una “nuova normalità”: le terre da calpestare restano incognite ma la meta è più chiara: arrivare là dove non eravamo arrivati. La creazione di una società più giusta e meno fragile, un’economia più equa, una supply chain più corta e robusta.
E dobbiamo farlo insieme, per dirla con una intuizione di Max Weber, come una “comunità di destini”.
Magari facendoci aiutare dalla competenza e dalla saggezza dei pensatori, oltre che dalla pragmaticità degli economisti.
Un grande saggio che ci ha lasciato di recente, Zigmund Baumann, in uno dei suoi ultimi libri ha scritto che “La felicità non consiste nella libertà dai problemi, dalle preoccupazioni, dalle ansietà, ma al contrario sopraggiunge quando superiamo i problemi, le angustie, le difficoltà della nostra vita.”
Le terre restano incognite ma la meta appare più chiara.
Buon viaggio a tutti.
Alberto Cirelli,
direttore commerciale
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